Sinossi di tutti i testi (1): A
A ciascuno il suo (Manghi Moreno)
È noto che il “principio di giustizia universale” Cuique suum (a ciascuno il suo), «per significare che il compito e il precetto fondamentale del diritto è di dare a ciascuno ciò che gli spetta» , compare – Portae inferi praevalebunt – nel motto posto sul cancello d’ingresso del lager di Buchenwald, in tedesco: Jedem das Seine. Questo ci offre alcuni spunti di riflessione sulla "violenza del diritto" a partire dagli interventi di Gustavo Zagrebelski e Leo Peppe.
Questo testo riprende l’argomento di un seguito di tre conferenze tenute, in febbraio e marzo 1966, a l’École Normale Supérieure di Parigi, poi pubblicate col titolo «Les élements en jeu dans une psychanalyse» (à propos de l’analyse, par Freud, de «l’Homme aux loups») sui Cahiers pour l’analyse, n° 5, 1966, pp. 17-24.
"Ma ciò non ci impedirà di osservare che, in questa congiuntura, la fascinazione di Freud per la scena primaria - questo oggetto che egli crede finalmente di aver afferrato meglio grazie all’uomo dei lupi - lo conduce a rafforzare il paziente nella sua fissazione di essere un oggetto di idolatria. D’altronde, in fin dei conti, non è forse questo il risultato di quella segreta connivenza grazie alla quale l’uomo dei lupi diviene un vero e proprio monumento della psicoanalisi - al pari dell’idolo che era stato per sua madre - dal momento in cui Freud organizza tra i suoi colleghi psicoanalisti una colletta in suo favore?"
Leggendo di recente il testo in francese, l’abbiamo trovato uno dei saggi più chiari e più importanti che conosciamo su questioni cliniche fondamentali per la psicoanalisi, quali l’evitamento immaginario della castrazione (mediante la fissazione all’analità), il passaggio dalla nevrosi alla psicosi, la denuncia della pesante responsabilità di Freud nella direzione della cura, quando decide di porre un termine all’analisi e viene accecato dalla bramosia di mettere le mani sulla scena primaria, nel caso dell' uomo dei lupi. Si tratta veramente di un piccolo classico della psicoanalisi, che abbiamo voluto riproporre in una nuova traduzione, che gli renda giustizia.
Postfazione: "Tendenza verso l’uomo o relazione verso l’uomo?" di Moreno Manghi
Che relazione c'è tra il lapsus e ciò che Freud chiama castrazione?
Titolo originale: L’abandon du Père, in Philippe Julien, L’Étrange jouissance du prochain, Seuil, Paris 1995, pp. 128-140.
Un saggio tanto chiaro quanto fondamentale su che cosa è veramente l'ateismo. Il no di Sygne, dopo aver tutto donato, questo no al di là della salvezza realizzata del Papa e del Re, non è né rimpianto né rimorso di quello che ha compiuto col suo sacrificio. Ma ne iscrive il limite incancellabile, l’atto finale dell’autentico ateismo : lasciar essere l’Altro. Tale è la Gelassenheit, la rinuncia, il lasciare la presa, l’abbandono di cui parlava Maestro Eckhart e che riprenderà Heidegger. Angelus Silesius l’ha scritto in un distico di fuoco in cui distingue due modi della Gelassenheit: abbandonarsi a Dio, abbandonare Dio.
In Opere di Sigmund Freud, vol. 11, Boringhieri, Torino 1979, pp. 101-108; ripubblicato da Sic On line (edizioni di Studium Cartello).
La rinuncia pulsionale - la rinuncia delle pulsioni al godimento - in nome dell'affermarsi della civiltà (Kultur) è un passaggio necessario all'instaurazione del legame sociale o è un inganno?
Indice di tutti i luoghi più notevoli in cui appare il lemma acting out nell’intera opera di Lacan.
Quando le esigenze della vita sociale impongono di superare quelle soglie fatidiche dell’esistenza che mutano radicalmente lo statuto della soggettività, solcandolo tra un prima e un dopo (ciò che gli antropologi chiamano riti di passaggio), al posto dell’atto da compiere, il soggetto compie un acting out. Così, quando per esempio egli deve affrontare per la prima volta il rapporto sessuale oppure riceve la notizia che diventerà padre, egli è completamente impreparato a simili eventi, e vi reagisce mettendo in scena ciò che di essi non ha potuto assumere, riconoscere, integrare sul piano simbolico.
Vi sono molti problemi concettuali intorno all'uso ed al significato del termine acting-out. Essi sono dovuti alle vicissitudini subite dalla parola agieren nel corso dello sviluppo freudiano e post-freudiano della teoria e della tecnica psicoanalitica, soprattutto a partire dalla traduzione in inglese di questo termine. Ci limiteremo a riassumere e a raggruppare questa problematica concettuale e queste mutazioni di significato in alcuni punti che ci sembrano essenziali.
Da Anna Freud, Das Ich und die Abwehrmechanismen, 1a ed. ted. 1936, 1a trad. ingl. The Ego and the mechanisms of defence, 1937; trad it. L'Io e I meccanismi di difesa, Martinelli, Firenze 1967, pp. 33-35.
Ma i giudici? Si prestano, loro malgrado. Non tutti, per fortuna, ma quelli che si prestano, fosse pure per negligenza o disinformazione, come non considerarli, loro malgrado, dei complici di questo disegno di esautorazione? È per ignoranza? Ma essi sono i primi a sapere che l’ignorantia juris - sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia - non li scusa dal commettere, se non un reato, un sopruso non tanto contro la psicoanalisi ma contro quell’Uomo che la psicoanalisi non smette, al di là di ogni umanesimo e umanismo, di riaffermare nella sua essenza di desiderante, là dove un legame sociale fondato sulla psicologia scientifica non ne vuole sapere niente.
Questo testo avrebbe dovuto costituire la postfazione alla traduzione del libro di Guy Le Gaufey Anatomie de la troisième personne, EPEL, Paris 1998, pubblicato in italiano col titolo Appartenere a sé stessi, Polimnia Digital Editions, Sacile 2018.
"Il fatto di avere volontariamente sottoscritto il patto sociale, non significa che il soggetto, nella sua radicale singolarità, appartenga senza limiti alla sovranità dello Stato: una parte di lui rimane esclusa da ogni logica della rappresentazione, da ogni censimento, da ogni giurisdizione, da ogni ordine e organizzazione sociale. Si tratta di quella parte di sé stesso grazie a cui ci saranno sempre degli atti ai quali egli 'non si autorizzerà se non da sé', qualunque legge li proibisca, e qualunque sia il prezzo da pagare, sia pure l’esilio, o una scelta fuori legge."
Oggi Victor entrerebbe a far parte di una intera popolazione di 'ragazzi selvaggi', anzi addirittura di un 'mondo dell'autismo' con un proprio censimento annuale e proprie cittadelle. Si tratta di bambini e ragazzi fissati, come vuole un’opinione ormai tanto radicata quanto diffusa, in una Natura preistorica che li esclude assolutamente e definitivamente da ogni possibilità di legame sociale. Ineducabili, irrecuperabili, irredimibili, inaccessibili a ogni rapporto, gli 'autistici' traccerebbero una linea di confine tra Natura e Cultura, tra Umano e Inumano. In quanto alla psicanalisi: deve astenersi da chi non è accessibile al transfert e lasciare l'autismo alla neuroscienza e ai centri specializzati o può dire la sua parola? È realmente possibile una irrelatezza assoluta, priva di ogni rapporto con l'altro (senza che nemmeno la pulsione possa costituirsi) oppure si tratta di un'idealizzazione che risponde a una certa esigenza culturale? L'autismo è un 'morbo' o i genitori del bambino autistico non sono esenti da responsabilità? Se qui non affronteremo simili questioni, prenderemo intanto in considerazione quella che introduce, per la prima volta, il programma pedagogico di Itard, interrogandoci sul rapporto tra la pedagogia e il Padre in un caso così radicale come quello di Jean Itard e del suo 'selvaggio'.
L’autismo viene presentato come un morbo che colpisce il bambino geneticamente, una malattia che dura tutta la vita, con invalidità e sussidi statali assicurati. La comunicazione della diagnosi ai genitori avviene dopo un nutrito protocollo di prove la cui scientificità è inappellabile, e la conseguente cura consiste nell’addestrare il bambino perché funzioni meglio, un iperaccudimento forzato che mette sotto sequestro luoghi, incontri, trasforma gli accadimenti in pure sequenze vuote, fotografate e anticipate continuamente al bambino per farlo funzionare. Tutto ciò è esattamente il mondo autistico. Prendere in osservazione o in trattamento un bambino non deve passare attraverso una diagnosi dichiarata, controfirmata dai genitori, dalla scuola, ma esige che la difficoltà portata dal bambino venga elaborata e trasformata dai genitori nelle difficoltà che loro stessi incontrano, come individui, e il risultato di questo lavoro possa venir collegato alle reazioni del bambino.
Ci piacerebbe che per queste obiezioni nessuno si senta offeso, ma servano unicamente a sollecitare un dibattito: se il nostro stile suona mordace è solo per passione, e soprattutto per il fatto che nonostante non abbiamo mai perso una sola occasione per denunciare prima di ogni altra la parola "utente", oggi la vediamo spiccare in primo piano proprio in un Manifesto per la difesa della psicoanalisi.
Capitolo tratto da Otto Fenichel e i freudiani politicizzati, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1987.
Il libro ricostruisce, sulla base di una documentazione in gran parte inedita, un capitolo poco noto della storia della psicoanalisi. Al centro dell’attenzione sono gli esponenti più politicizzati e radicali del pensiero psicoanalitico, da Fenichel a Reich, a Bernfeld, a Fromm. Con l’emigrazione negli Stati Uniti, l’utopia sociale e politica della psicoanalisi - questa la tesi dell’autore - soggiace a un’autentica rimozione e apre le porte alla medicalizzazione della disciplina.
Una nuova traduzione del saggio di safouan, già edito da Spirali, di cui accogliamo senza riserve l'invito di H. Yankelevic: si legga, riga per riga, questo testo, forse insuperabile, di M. Safouan.
Traduzione di Antonello Sciacchitano e Raffaele Angelini in occasione delle Giornate nazionali di studio dall'Apli su Analisi finita e infinita, Milano, 23 novembre 1997. Nella Prefazione i traduttori affermano: "Perché mai l’analisi dovrebbe essere infinita, nel senso matematico del termine, diverso da quanto propone la forsennata traduzione musattiana di interminabile? Occorre precisare che in tutto l’opus freudiano il termine infinito compare solo due volte: la prima nel titolo, L’analisi finita e infinita, e la seconda alla fine del penultimo paragrafo del capitolo settimo della stessa opera (inutile cercarlo in italiano!), dove qualifica il compito etico (la tedesca Aufgabe, la francese tâche) dell’esplorazione analitica: là dove, finita la cura, comincia l’analisi vera, cioè infinita".
La questione della formazione degli analisti è sottoposta all’esperienza personale dell’autore. Egli analizza i criteri interni ed esterni della fine dell’analisi ripensando alla loro coerenza in rapporto all’assunzione della verità. In modo particolare, verrà presa in considerazione la distanza che – alla fine dell’analisi – il soggetto è supposto prendere rispetto al fantasma come sostegno delle sue certezze. Il lettore seguirà il suo sviluppo sull’antinomia fra la formazione e l’istituzione il cui ruolo resta quello della garanzia dei suoi membri e della ripresa dell’esperienza della Passe.
L'approccio all'acting out e all'inibizione, che per Lacan delimitano i confini della psicanalisi, è affrontato in questo testo da tre punti di vista, sostenuti da numerosi esempi cosiddetti clinici: 1) Quanto più l’analista non tiene in conto la differenza tra il desiderio e la domanda (differenza che per essere individuata richiede una teoria), tanto più si espone al rischio di causare un acting out. Perché quest’ultimo si produca, è sufficiente che l’analista soddisfi in qualche modo la domanda dell’analizzante. 2) La caduta di un’inibizione sotto la spinta di una logica meramente realista, basata sulla constatazione del vero/falso, comporta il passaggio a un acting out. 3) Quando parliamo del temibilissimo acting out lo pensiamo sempre come pericoloso, violento, traumatico, foriero di conseguenze catastrofiche; non ci viene mai in mente che l’acting out può consistere nel conformarsi ai valori sociali più comuni, diffusi e approvati: il successo professionale, il matrimonio, il generare un bambino..., con i quali l'analizzante può dichiararsi guarito e considerare conclusa la sua analisi. Chi oserebbe biasimarlo?
Un vento di follia sta per invadere la Francia. Un vento di follia liberticida che si copre con il velo della ragione. Non si fa che normare, regolamentare, soppesare, formalizzare tutto. Presto ci si dovrà vestire tutti uguali, mangiare le stesse cose, andare alla stessa velocità, non mostrare alcun segno di distinzione, né religioso né politico, professare la stessa opinione, denunciare il proprio vicino se si discosta dalla norma e riconoscere che lo Stato ci vuole il bene più grande, veglia su ogni istante della nostra vita e ci prepara una morte secondo le regole.
Come parlante e amante della lingua italiana oggi mi sento afflitto da una 'neolingua' omologata che ormai tutti parliamo indiscriminatamente, senza opporvi alcuna resistenza, e che mi fa pensare a quella lingua progettata a tavolino chiamata esperanto, inventata da un linguista che era un medico e che si firmava Doktoro Esperanto. L’esperanto è una lingua artificiale, astratta e senza storia, sostenuta dall’idea di una 'democrazia linguistica universale' che si prefigge di affiancarsi e forse di sostituire la lingua parlata dai popoli. Al suo confronto, la neolingua rivela un carattere ancora più inquietante: il suo affermarsi spontaneamente, come se fosse sospinta da un desiderio collettivo. È questo desiderio che cercherò qui di interrogare, esaminando alcuni dei lemmi più diffusi della neolingua...